|
IL SALENTO - AMBIENTE TERRESTRE
Il Salento: una terra
tra due mari
Affermare che
il Salento debba molto delle sue peculiarità e delle sue bellezze al mare, a
prima vista potrebbe sembrare banale: paradossalmente invece le popolazioni
salentine la pensavano esattamente al contrario. Per loro la terra su cui
vivevano era soprattutto sinonimo di sudore e fatica, ma nonostante questo
amavano coltivarla e viverla, a differenza di quanto avveniva, invece per
quell’immenso, onnipresente universo blu, quasi sempre visto con sospetto,
sicuramente con timore. Il mestiere del pescatore era quasi sempre
sottovalutato, probabilmente perché consci dei pericoli che si correvano
nell’esercitarlo, i salentini cercavano di sminuire, anche e soprattutto per
amore dei propri figli, il fascino che innegabilmente il mare esercitava da
sempre sull’uomo. Questo strano rapporto con il mare fu notato anche da uno
studioso, il Calamonico, che nel 1917 in un suo studio sulle “Zone di piovosità
e densità di popolazione nella provincia di Lecce”, pubblicato all’epoca
sulla Rivista Geografica Italiana, a proposito dell’insalubrità di certe zone
costiere, scrive “il raccogliersi dei centri abitati e l’infittirsi della
popolazione in ispecie lungo l’asse centrale della penisola, di contro
all’eccezionale deficienza degli insediamenti umani di qualsiasi tipo, per una
larga fascia, su quasi tutto il
litorale della regione (...), per
cui, qui, in contrasto con quanto avviene su tutta la Terra, il mare non ha
costituito, col favore del clima, e la facilità delle comunicazioni motivo di
richiamo per le genti, ma appare nella persistente insalubrità della costa, un
fattore di
repulsione per l’uomo”. Si capisce quindi il motivo per cui,
le uniche zone veramente selvatiche rimaste intatte nel corso degli anni nel
Salento, sono spesso proprio quelle costiere, legate strettamente al mare, dove
non poteva essere coltivato alcunché, mentre nell’entroterra, quasi tutti gli
spazi furono sfruttati per scopi agricoli ed ovviamente urbanistici. E’ bene
precisare che il Salento non è povero di spazi ed ambienti naturali, anzi,
esistono molti esempi di natura incontaminata e perfettamente salvaguardata,
sfuggita alla morsa dell’abusivismo edilizio. L’impatto umano sul
territorio, non è stato però sempre deleterio, perché se si pensa ai
bellissimi uliveti, una vera e propria costante verde del paesaggio, ed alle
innumerevoli costruzioni in pietra, come i classici muretti e le tipiche
“pajare” (dal dialetto salentino paja = paglia, una tipica costruzione,
spesso erroneamente definita trullo, a forma circolare o quadrata, usata dai
contadini come rifugio, o rimessa per gli attrezzi), ci si accorge che sono sì,
opera dell’uomo, ma che si fondono e spesso si confondono con quello che
normalmente viene definito paesaggio naturale. Passeggiando per le stradine di
campagna non è raro incontrare un maestoso esemplare di quercia Vallonea, vero
testimone del tempo passato, perfettamente integrato tra gli ulivi anch’essi
secolari, come accade in un piccolo boschetto nei pressi di Tricase,
dove è presente il più vecchio esemplare conosciuto di quercia
Vallonea,
vecchio di 600 anni. Per comprendere appieno le caratteristiche della flora e
della fauna salentina, è necessario inquadrare geograficamente il Salento,
conoscere il clima e quindi capire la distribuzione e la natura delle
specie, vegetali ed animali ad esso associate. La penisola salentina, è lunga
circa 150 km e si protende in direzione NW-SE, nel mare Adriatico, sul versante
di Levante, e nello Ionio su quello di Ponente. Nel Salento non esistono rilievi
montuosi; il paesaggio è piuttosto pianeggiante, ad eccezione della regione più
meridionale movimentata dalle caratteristiche serre, delle piccole
dorsali montuose non molto elevate ed allungate e senza forti avvallamenti, la
più alta delle quali è quella di S. Eleuterio che misura 195 m sul livello del
mare e si trova nei pressi di Parabita.
L’assenza di una importante catena montuosa, espone queste terre all’intera
rosa dei venti, anche se quelli predominanti sono lo Scirocco, caldo e
umido, proveniente da SE ed il Libeccio, che invece provenendo da SW è
più secco del precedente, perché cede la maggior parte dell’umidità ai
rilievi della Sicilia e della Calabria, l’ultimo baluardo prima di arrivare in
questa regione. In estate sono più frequenti i venti del settore di N - NW,
anche se molto spesso l’intera penisola è spazzata dal forte Grecale,
proveniente da NE e che genera
delle forti mareggiate soprattutto lungo il
versante adriatico. Il clima, per motivi diversi è considerato uno dei più
costanti d’Italia; infatti la stazione meteorologica di Santa
Maria di Leuca, è quella che in tutta la penisola, negli ultimi anni, ha
registrato la minore differenza tra la temperatura media annua minima e massima
(21.0°C e 26,4°C). Il motivo probabilmente è dovuto alla notevole azione di
scambiatore termico offerta dal mare, il quale accumula una grande quantità di
calore in estate, che poi cede molto gradualmente durante tutto l’inverno.
Tutto ciò influisce anche sulla piovosità, complessivamente abbastanza scarsa,
tanto che nell’ultimo decennio si sono spesso verificati veri e propri
fenomeni di siccità. Il clima salentino quindi può essere generalmente
considerato come temperato, con lunghe estati calde ed inverni brevi e piuttosto
miti. Alla luce delle precedenti considerazioni è possibile distinguere una
serie di ambienti tipici salentini, da quelli prossimi al mare a quelli
dell’immediato entroterra, che possono essere anche molto diversi fra loro ma
che spesso sono separati da poche decine di km (basti pensare che la distanza
massima tra il versante adriatico e quello ionico è di appena 40-45 km, ad
esempio tra Otranto
e Gallipoli):
ü
Ambiente
sabbioso
ü
Ambiente
umido retrodunare
ü
Ambiente
roccioso costiero
ü
Ambiente
dell’entroterra
Ambiente sabbioso
Questo genere di ambienti è spesso soggetto a notevoli variazioni,
provocate essenzialmente dalla forza erosiva del vento e dalle maree, che in
alcuni casi modificano visibilmente la morfologia. Questa continua variabilità,
dovuta alla scarsa stabilità del substrato, li rende piuttosto inospitali e
quindi scarsamente
popolati, sia dalle piante che dagli animali. Naturalmente
questo vale per le zone immediatamente a contatto con il mare o comunque molto
vicine ad esso, mentre invece dirigendo lo sguardo verso l’interno, è
possibile notare una prima presenza di vita già ai margini della spiaggia.
Quest’ultima può essere delimitata da una parete di roccia, alta anche
qualche metro, e che favorisce l’accumulo dei sedimenti trasportati dal mare,
come accade nei pressi di Torre
dell’Orso, oppure possono innalzarsi delle vere e proprie barriere di
sabbia, le dune, che segnano la linea di confine tra la spiaggia e l’ambiente
retrodunare. Proprio grazie all’azione protettiva offerto dalle dune,
l’ambiente retrodunare è spesso tanto fertile da essere estesamente
coltivato, come ad esempio si può vedere nei pressi di Torre
Vado. L’azione contrastante delle dune è legata strettamente alla
vegetazione molto specializzata che riesce a colonizzarle; si tratta di specie psammofite,
ossia piante in grado di crescere su terreni non consolidati, come appunto sono
le sabbie. Inoltre, le acque presenti nel sottosuolo, hanno molto spesso una
concentrazione salina molto superiore a quella delle acque dolci, per cui queste
piante devono superare anche questo tipo di problema; quelle che ci riescono
sono definite alofile. Per vivere in questi ambienti estremi queste
piante hanno sviluppato delle particolari strutture a livello radicale
presentando delle sottilissime radici, simili a capelli, che si infiltrano fra
gli spazi microscopici lasciati dai granelli di sabbia, alla ricerca di acqua.
Un’ulteriore specializzazione è quella di riuscire ad assorbire il prezioso
liquido, ma soprattutto di non perderlo. In una pianta non adattata a queste
condizioni particolari il cosiddetto fenomeno dell’osmosi, provoca la
fuoriuscita dell’acqua contenuta all’interno delle cellule delle radici,
verso l’ambiente esterno, più concentrato di sali. Le piante alofile,
invece, sfruttano questo fenomeno al contrario, accumulando all’interno delle
proprie radici una maggiore quantità di sali rispetto all’ambiente esterno,
in modo tale da pompare l’acqua necessaria alla vita vero le loro cellule
radicali. Oltre alle radici, anche il fusto è specializzato nei cosiddetti rizomi,
un vero e proprio fusto sotterraneo, che invece di crescere in altezza, si
allarga sotto la superficie, espandendosi in orizzontale, quasi come se fosse
esso stesso una radice. In questo modo i rizomi compattano le dune, rendendole
resistenti al flusso del vento e agli altri fenomeni erosivi. Naturalmente anche
la parte della pianta esposta alla luce del sole, deve essere notevolmente
adattata a contrastare le elevate temperature
raggiunte dal suolo in estate. Per
evitare la completa disidratazione, presentano spesso delle foglie carnose,
molto ricche di acqua al loro interno e spesso
ricoperte di spine, facilmente visibili in tutte le piante “grasse”. Di
solito non sono alte, anzi, spesso sono addirittura completamente distese sul
suolo, per questo motivo vengono dette prostrate. Nella zona vicina al
bagnasciuga la vegetazione è particolarmente scarsa, se non addirittura
assente, in quanto gli unici esemplari in grado di sopravvivere sono quelli
molto adattati alla alta salinità dell’acqua che qui è vicina a quella del
mare. Sono piante come il poligono delle sabbie (Polygonum maritimum),
una specie perenne molto presente sui nostri litorali. Spostandosi verso
l’interno, alla base delle prime dune, si nota la caratteristica gramigna
delle spiagge nel Salento(Sporobulus pungens) appartenente alla famiglia delle
Graminacee, che insieme ad altre piante appartenenti alla stessa famiglia,
contribuisce al consolidamento del substrato permettendo l’attecchimento anche
ad altre specie, molto più eleganti come il giglio delle dune (Pancratum
maritimum) dal tipico fiore bianco, o ad altre meno apprezzate dai bagnanti,
per le loro pungenti spine, come la calcatreppola marittima (Eryngium
maritimum), dalle foglie a margini dentati e spinosi, di colore verde
chiaro, i cui fiori sono molto meno appariscenti dei precedenti, raccolti come
sono in una sorta di ombrellino sferico. Tutte
quelle citate finora sono piante erbacee, ossia con fusto verde, che in
genere vivono un anno, ma che possono anche essere biennali o perenni.
Nelle
zone più interne, ma anche sulle dune più vecchie, invece, i vegetali più
presenti e notevolmente più vistosi, sono quelle specie arbustive, con fusti più
o meno legnosi, che rendono ancora più compatto il terreno sul quale vivono,
costituendo l’ultimo grande baluardo contro l’erosione. Qui si incontra
l’acacia saligna (Acacia cyanophylla) una specie sempreverde, perenne,
dall’aspetto cespuglioso e il lentisco (Pistacia lentiscus) con le
caratteristiche bacche rosse. Nella zona retrodunare, al riparo dai forti venti
provenienti dal mare, non è raro trovare una ricca vegetazione che qui cresce
rigogliosa per la presenza di preziose e notevoli sostanze alimentari;
predominanti sono sempre le specie arbustive, che rappresentano nel complesso la
caratteristica macchia mediterranea. Oltre alla flora, anche la fauna
presente in questi ambienti è piuttosto caratteristica, sia per le dimensioni,
mai eccessivamente sviluppate, sia per il comportamento, prevalentemente
notturno o comunque legato alle ore del giorno meno calde. Molti degli animali
presenti sono invertebrati, fra cui molti insetti, spesso dotati di esoscheletro
(rivestimento cutaneo esterno) che abbandonano, sostituendolo con uno più
grande, dopo ogni muta. Un tipico abitante delle dune è il curioso scarabeo
stercoraro (Scarabeus semipunctatus), che prende il nome dalla materia
organica di scarto dei grossi animali erbivori, lo sterco, di cui si serve per
costruire le caratteristiche grosse sfere che serviranno da nutrimento alle sue
larve; in questi ambienti, invece, utilizza per lo stesso scopo, il detrito
organico trasportato sulla spiaggia dalle mareggiate e che poi rotola, con le
zampe posteriori, verso la sua tana. Tra la vegetazione presente sulle dune di
questi litorali, è possibile trovare anche un’altra specie di scarabeo, più
appariscente del precedente, lo scarabeo rinoceronte (Oryctes nasicornis),
così chiamato per il lungo “corno” ricurvo, molto simile a quello del
grande erbivoro africano. Entrambi gli scarabei sono capaci di volare, ma il
loro è un volo piuttosto pesante e rumoroso, molto diverso di quello di molte
eleganti farfalle, come la vanessa del corbezzolo (Charaxes jasius) di
cui non è raro apprezzarne i vivaci colori, nei periodi in cui la vegetazione
è più rigogliosa ossia in autunno e in inverno. Molto presenti sono le
rumorose cicale (Lyristes plebejus) che fungono da colonna sonora ai
caldi pomeriggi estivi. Tra i vertebrati, fra cui i rettili che spesso si cibano
degli esemplari succitati, la lucertola (Podaricus sicula), è molto
presente soprattutto nei periodi dell’anno più caldi, dalla tarda primavera
fino ad autunno inoltrato.
Ambiente umido
retrodunare terrestre
Il più importante esempio di
questo genere di ambienti è sicuramente la riserva delle Cesine, sul litorale
adriatico nei pressi del comune di Frigole,
a pochi km dalla città di Lecce.
Da molti anni oasi naturale dal WWF, è stata oggetto di numerosi studi da
parte
di studiosi e semplici appassionati di natura. Sempre sullo stesso versante, vi
sono altri ambienti palustri, tutti comunque abbastanza concentrati nella zona
di litorale che da Casalabate
porta a Otranto,
dove poco più a nord, si trovano i Laghi Alimini, anch’essi molto importanti
dal punto di vista naturalistico. Sul versante jonico, è possibile incontrare
ancora dei bacini umidi salmastri, come quelli che dal lido degli Angeli vanno
fino a Porto
Cesareo, e quelli tra Torre
San Giovanni, nei pressi del comune di Ugento,
e Torre
Mozza, anche se si tratta di bacini tutti messi artificialmente in
comunicazione con il mare e in alcuni casi regolarmente utilizzati come impianti
per l’allevamento ittico. Per la ricchezza, lo stato di conservazione e le
dimensioni, la riserva delle Cesine è un ottimo esempio di area protetta. Entro
i suoi confini è possibile scoprire una enorme varietà di specie vegetali, da
quelle tipicamente legate all’ambiente umido marino o salmastro a quelle
prettamente d’acqua dolce. Ne esistono molte con caratteristiche intermedie
che le rendono facilmente adattabili cui fanno da contorno molte specie arboree
che formano una grande e rigogliosa pineta retrostante. Partendo dalle zone più
a contatto con il mare, soggette alle escursioni di marea e dove l’acqua è
molto ricca di sali, vi sono numerose e vaste aree occupate da piante cosiddette
alofile (che riescono a vivere in ambienti molto ricchi di sostanze
saline); l’aspetto generale è quello di un folto canneto, formato
prevalentemente da giunchi di mare (Juncus maritimum e Juncus
subulatus) fra i quali si insediano e si confondono anche altre specie
vegetali,
come l’astro marino (Aster tripulium) ed altre anche molto più
rare, che spesso risultano dei veri e propri residuati di antiche epoche, in cui
il clima era molto più caldo, come il convolvolo palustre (Ipomea sagittata).
Quest’ultima è una specie ormai in via di estinzione, presente nel Salento
solo nell’Oasi delle Cesine ed in poche altre zone d’Italia, riconoscibile
per i caratteristici fiori a campana, di un bel colore rosa. La sua graduale
scomparsa è dovuta essenzialmente alla sua particolare specificità, in quanto
esige solo alcuni caratteristici valori di salinità delle acque, al di fuori
dei quali non riesce assolutamente a vivere. Nelle parti umide più interne,
quindi meno salmastre, sono presenti altri tipi di vegetali, variamente
adattati, come i gigli d’acqua (Lilium sp.), molte orchidee, fra le
quali la bella Orchis palustris e la Orchis laxiflora. Nelle zone
che rimangono all’asciutto per la maggior parte dell’anno, è facile trovare
il grosso giunco spinoso (Juncus acutus) e distese di carici (Carex
carex), mentre verso l’interno, si incontra una rigogliosa pineta, che si
sta evolvendo inesorabilmente in macchia mediterranea, per la graduale
sostituzione naturale di Pini (Pinus pinea e Pinus maritimum), con
il più tipico componente del bosco mediterraneo di latifoglie (pianta a foglie
larghe) sempreverdi, ossia il Leccio (Quercus ilex). Il sottobosco è
molto ricco di specie arbustive, anche molto profumate, fra le quali il mirto (Myrtus
communis), l’erica (Erica arborea) ed infine il lentisco (Pistacia
lentiscus), tipici di
queste zone, anche se sono state segnalate anche
alcune piante di origine balcanica, come l’Erica manipuliflora. Fra la
fauna tipica di questi ambienti non possono mancare gli anfibi, come i rospi
comuni (Bufo bufo) e le rane (Rana esculenta), ma sono presenti
anche i tritoni, fra i quali il più raro tritone crestato (Triturus
cristatus) e il tritone italico (Triturus italicus). Il primo è
caratterizzato da un dorso brunastro, con punteggiature più scure e il ventre
colorato di giallo, arancione o arancione - rossastro, quasi sempre con un
caratteristico disegno formato da macchie nerastre. Questo animale può
raggiungere una lunghezza massima di 18 cm per le femmine e 14 per il maschio.
Il secondo, invece, è tipico dell’Italia meridionale ed ha una colorazione
meno caratteristica del precedente essendo bruno – verde, ed è anche più
piccolo, perché raggiunge una lunghezza massima di 11 cm. Entrambi vivono a
contatto con l’acqua dolce e solo per un certo periodo dell’anno sono
strettamente legati alla terraferma, di solito nei periodi al di fuori della
stagione riproduttiva. Quasi tutti gli anfibi costituiscono anche il cibo
preferito di molti rettili, fra i quali la biscia dal collare (Natrix natrix),
molto comune nelle aree umide e dalla colorazione piuttosto variabile. Questo
rettile ha un caratteristico collare giallo (ma alle volte anche bianco, arancio
o rosso) dietro la testa, che gli dà appunto il nome. Essendo un’abile
nuotatore a volte caccia anche in acqua soprattutto girini, rane e piccoli
pesci. Un altro rettile, ma molto diverso del precedente, è la testuggine
d’acqua (Emys arbicularis) con il carapace ovale,
brunastro,
frequentemente segnato da evidenti punteggiature e striature di colore giallo, e
che si nutre di pesci, anfibi e invertebrati. A causa della costante riduzione
del suo habitat questa bella tartaruga d’acqua è quasi scomparsa del tutto
nel Salento, e sopravvive solo nell’Oasi delle Cesine. Oltre agli animali
appena citati, occorre aprire una parentesi particolare sugli uccelli
strettamente legati a questi ambienti, sia annualmente che stagionalmente, molti
dei quali sono migratori. Nei periodi di transito o durante tutto l’anno, gli
appassionati di birdwatching (osservazione degli uccelli nel loro
ambiente naturale) muniti di binocolo e al riparo tra i canneti o in apposite
postazione di avvistamento, possono ammirare gli splendidi aironi bianchi (Egretta
alba), appollaiati sugli alberi o intenti a pescare nelle basse acque
costiere. Un altro abile pescatore, è il cormorano nero (Phalacrocorax carbo),
dal becco lungo che spesso può essere avvistato mentre sosta in posizione
eretta sugli scogli, generalmente con le ali semiaperte; non è raro assistere
ai suoi spettacolari tuffi che sfrutta per cacciare i
pesci che avvista
dall’alto. Molto simile al precedente, anche se completamente nero, è il
marangone dal ciuffo (Phalacrocorax aristotelis), che spesso nidifica
accanto alle colonie di cormorani, sugli alberi o sulle rocce. In inverno si
osservano grandi stormi di folaghe (Fulica atra) un massiccio uccello
acquatico, anch’esso dal piumaggio nero, ma col caratteristico becco e una
ampia placca frontale completamente bianca. Spesso nuota insieme ad altre
anatre, fra le quali il germano reale (Anas platyrhynchos), col classico
becco giallo e la bella livrea nuziale del maschio, caratterizzata dal capo
verde con riflessi metallici, e un sottile anello bianco intorno al collo.
Spesso queste specie, rappresentano un richiamo irresistibile per alcuni uccelli
rapaci, come il falco di palude (Circus aeroginosus) che caccia calandosi
da bassa quota nelle canne. L’elenco continua con il tuffetto (Podiceps
ruficollis) e i coloratissimi martin pescatori (Alcedo atthis) dal
piumaggio blu – verde – azzurro e dal volo basso e rapidissimo, mentre
in qualche rara occasione sono stati osservati perfino gli inconfondibili
fenicotteri rosa (Phoenicopterus ruber).
Ambiente roccioso
costiero
La morfologia delle coste del Salento è il
risultato evidente di quel fenomeno tipico di questa regione d’Italia che è
il carsismo. La costituzione chimico – fisica del terreno e altre
caratteristiche delle rocce del luogo hanno creato degli scenari davvero
spettacolari. La bellezza e la variabilità dell’ambiente roccioso costiero
salentino, è uno dei tanti motivi per cui vale la pena visitare questo estremo
lembo di Italia. Percorrendo una delle tante strade litoranee, che costeggiano
entrambi i versanti, è possibile incontrare degli scenari paesaggistici
mozzafiato, alcuni dei quali ancora completamente integri e selvaggi, come i
lunghi canaloni, scavati da antichi corsi d’acqua, che dall’entroterra si
spingono verso il blu intenso del mare, in particolare quello vicino Porto
Badisco, poco a Sud di Otranto,
e quello del Ciolo nel comune di Gagliano
del Capo. Anche la costa neretina, sul litorale ionico, è un esempio delle
immense ricchezze che questa terra baciata dal sole offre al visitatore. Non a
caso proprio qualche decennio fa questa zona fu al centro di un attiva campagna
ambientalista, contro l’attuazione di un progetto di lottizzazione che avrebbe
comportato un notevole impatto ambientale. In seguito a quella battaglia fu
istituito un Parco Regionale per salvaguardare l’intero territorio e
promuovere uno sviluppo sostenibile di tutta l’area. Questi ambienti così
importanti sotto il profilo paesaggistico, spesso nascondono anche delle belle
sorprese dal punto di vista naturalistico. Molti
promontori rocciosi a picco sul
mare che apparentemente appaiono privi di vita e totalmente inospitali,
rappresentano invece, l’habitat ideale di molte specie animali e vegetali,
alcune delle quali limitate solo a ristretti tratti di costa. Le particolarità
di queste piante, alcune delle quali anche molto belle dal punto di vista
floreale, sono tali da meritare senz’altro un’analisi dettagliata sia per
quanto riguarda la loro morfologia che il loro areale (area di
distribuzione di una specie), caratteristico. Nell’estremo sud della penisola
fa bella mostra di sè il fiordaliso di Leuca (Centaurea leucadea), una
pianta appartenente alla famiglia delle Compositae, come la cicoria e il
carciofo, dall’aspetto erbaceo arbustivo (vegetale a fusto tenero e a
forma di arbusto). Fu scoperta nel 1925 da Lacaita, un botanico pugliese che
individuò questa pianta rarissima, dai colorati fiori rosa, solo
nell’ambiente rupestre di Novaglie,
e del Capo di Leuca, in generale. La fioritura del fiordaliso è tipicamente
primaverile, e le sue foglie presentano una sorta di peluria biancastra che le
protegge dalle lunghe esposizioni al caldo sole estivo. Spostandosi un poco più
a Nord, ed in particolare lungo il tratto di costa che da Otranto
porta a Santa
Cesarea, nei tratti più aridi e spogli come quelli a picco sul mare, si
incontra un’altra composita, anche questa molto rara e dall’aspetto
caratteristico, l’Echinops spinosissimus. Questa pianta presenta un
fiore, visibile solo d’estate, dal colore quasi celeste, che ricorda molto da
vicino l’aspetto degli spinosi ricci di mare, e che riesce ad adattarsi anche
in ambienti molto duri e inospitali, come sono quelli presenti in questo tratto
del Salento. Questa pianta generalmente vive in zone molto più ad Est, rispetto
all’Italia, che in questo caso rappresenta l’estremo lembo occidentale del
suo areale. La caratteristica comune di questi due rari vegetali è quella di
occupare una ristretta zona geografica, che in alcuni casi misura solo pochi km2.
Compatibilmente con le condizioni ambientali, ogni specie vivente tende ad
occupare il territorio circostante, con il
maggior numero di individui
possibile, in modo tale da assicurare la continuazione della propria specie. Gli
ecosistemi naturali non sono mai sistemi statici, bensì in continua evoluzione;
di conseguenza esistono delle zone in cui è possibile assistere nel corso degli
anni ad un vero e proprio ricambio di specie vegetali, (più marginalmente anche
di animali) che porta alla sostituzione graduale ma inesorabile di tutta una
serie di organismi viventi, da parte di altri più specializzati e quindi
maggiormente adattati per sopravvivere alle mutate condizioni ambientali. Per
quanto riguarda, invece, quegli ambienti più inospitali e “di frontiera”,
dove vivono il fiordaliso e lo spherodiscus, spesso non presentano un grande
margine di rinnovamento, proprio perché la morfologia e le caratteristiche
chimico – fisiche molto particolari, non lo permettono, perciò le uniche
specie che riescono a colonizzarli sono molto ridotte e in genere poco esigenti
dal punto di vista nutrizionale, tanto da essere definite pioniere. In
funzione di questa particolare adattabilità alle zone più inospitali, come
sono appunto le rupi o le scogliere molto vicine al mare, è quindi più facile trovare questo tipo di piante, di solito
dall’aspetto erbaceo arbustivo, alcune molto resistenti alla salsedine,
altre di meno ma comunque in grado, attraverso particolari apparati radicali, di
fissarsi saldamente al substrato roccioso e insinuarsi in profondità per
assorbire l’acqua, il prezioso elemento di cui hanno bisogno. Guardando
idealmente dal mare verso le zone più interne della costa rocciosa, si osserva
una vera e propria successione di vegetali, dapprima radi, isolati e
dall’aspetto erbaceo, che poi cedono il posto ad un numero sempre più fitto,
prima di arbusti e poi di cespugli veri e propri,
che danno il volto a quella
copertura vegetale che in genere viene definita macchia mediterranea. Fra
le specie tipicamente rupicole (in questo caso, piante che vivono sulle
rocce) presenti esclusivamente nel Salento, ma con un areale più sviluppato
delle precedenti, da segnbalare l’alisso di Leuca (Alyssum leucadeum),
che come il fiordaliso, è ricoperto da una fitta peluria biancastra, ed altre
specie tipiche come la campanula pugliese (Campanula versicolor),
ristretta alla sola Puglia e parte della Basilicata, e la Scrofularia lucida,
anch’essa limitata alle zone del Salento. Una pianta rampicante spinosa, molto
presente su tutte le scogliere del Salento, è il cappero (Capparis spinosa);
i boccioli dei suoi fiori, quando sono ancora molto piccoli, vengono conservati
sott’aceto e usati per condire numerose pietanze e le fresche insalate estive.
Un’altra erba selvatica, il finocchio di mare (Chritimum maritimum),
viene conservato sott’olio, e usato come contorno di secondi piatti. Volendo
percorrere parallelamente i percorsi della flora degli ambienti rocciosi e della
gastronomia salentina, non si può non citare uno degli arbusti aromatici per
eccellenza, il rosmarino (Rosmarinus officinalis) con le sue tipiche
foglie sottili, quasi aghiformi, molto usate per profumare gli arrosti, come
pure l’alloro (Laurus nobilis) un cespuglio dalla chioma molto fitta e
ramificata, le cui foglie sono spesso utilizzate nella preparazione di ottime
pietanze, o per aromatizzare liquori. Nel Salento, si usa seccarne le foglie ed
aggiungerlo a quello, che in passato era considerata dai contadini (ma non solo
da loro) una vera e propria leccornia, fichi secchi con ripieno di mandorla, una
semplice e profumatissima alternativa alle moderne merendine, ma decisamente più
naturale. I fichi, infatti, sono il dolce frutto carnoso di un albero, dalla
liscia corteccia , il fico (Ficus carica L.) che cresce spontaneamente
sulle rocce e che, soprattutto nel passato, era anche molto coltivato e presente
quasi ovunque nella penisola salentina. Un paesaggio roccioso che si rispetti,
però, non può assolutamente mancare di due piante grasse, che sembrano ormai
tipiche del bacino del Mediterraneo, ma che provengono entrambe dal lontano
Messico, da dove furono introdotte nel lontano XVI secolo a scopo ornamentale,
il fico d’india (Opuntia ficus-indica) e l’agave (Agave americana
L.). La prima è una specie perenne, che può raggiungere anche alcuni metri
di altezza, spesso indicata come cactus, ma dal quale si distingue nettamente
anche per la sua forma appiattita e segmentata.
Ognuno di questi elementi carnosi, che può essere considerato un fusto o
un ramo modificato con funzione di foglia (in dialetto leccese, sono chiamati “pale”)
presenta numerose spine molto lunghe, e possono raggiungere una lunghezza anche
di mezzo metro ed una larghezza di 20-25 cm. Nel periodo estivo, sui loro
margini spuntano dei frutti, anch’essi spinosi, ma con spine molto piccole
quasi invisibili alla vista, ma fastidiosissime al tatto, che assumono una forma
quasi ovoidale e dei colori variabili dal giallo al viola intenso; all’interno
contengono una polpa, ugualmente colorata, molto succosa e dolce, ma ricca di
piccolissimi semi. Spesso da questi frutti si ricavano anche delle
marmellate
molto gustose, utilizzate per farcire crostate e dolci in genere. L’agave a
differenza del fico d’india, non ha dei frutti così gustosi, ma ha la
caratteristica poco comune di possedere un unica grande infiorescenza
(l’insieme e la disposizione dei fiori di una pianta), alta anche più di 5
metri, e con i fiori riuniti in una specie di pannocchia terminale, molto
ramificata. Questa struttura formata da migliaia di fiori verdi e molto
profumati, spunta al raggiungimento della maturità sessuale, che si può avere
approssimativamente tra il decimo ed il ventesimo anno di età della pianta.
Anche questa è una specie perenne, costituita dalle tipiche foglie carnose e
molto lunghe, dai margini spinosi e dentati, con una grossa spina all’apice
della foglia stessa. Vive molto bene sui margini litorali rocciosi, ma anche su
terreni aridi e soleggiati. La macchia mediterranea annovera anche numerosi
arbusti e cespugli, come il mirto (Myrtus communis), con le sue
caratteristiche bacche nero-violacee usate per preparare marmellate e liquori,
ma molto apprezzate anche da alcune specie animali come molti uccelli, fra i
quali i corvi (Corvus corone cornix) e le onnipresenti gazze (Pica
pica), fra i quali trovano spesso riparo le lucertole (Podarcis sicula),
e le rumorose cicale (Lyristes plebejus). Una caratteristica unica di
questo tipo di ambiente è però la notevole varietà di specie e di profumi che
si incontra e respira, percorrendo i numerosi sentieri che costeggiano i
litorali costieri.
L’ambiente dell’entroterra
L’entroterra salentino non è molto
distante dal mare, in quanto basta percorrere una trentina di km per giungere su
uno dei due versanti. Di conseguenza anche il tipo di ambiente risente molto di
questa vicinanza; non a caso il clima si mantiene sempre abbastanza mite, anche
d’inverno grazie all’azione mitigatrice del mare. Proprio per queste
caratteristiche la flora e la fauna assumono i tipici caratteri mediterranei,
che consentono la sopravvivenza in ambienti spesso aridi e con periodi più o
meno lunghi di siccità in alcuni mesi dell’anno. L’aspetto più tipico del
paesaggio salentino è senza dubbio la presenza costante degli oliveti, una
verde distesa che copre l’intero Salento da un versante all’altro, assumendo
in certe zone quasi un carattere di monocoltura. Questa pianta così adattabile
e affascinante cresce dappertutto, nella terra più fertile e nelle rocce; un
detto popolare afferma che l’olivo, per vivere bene, ha bisogno di cinque
indispensabili “S”: silenzio, siccità, solitudine, sole e sassi. Ovviamente
questa è una esagerazione, ma riassume completamente l’indole di questa
pianta. Se l’olivo è la prima delle coltivazioni salentine, l’uva
rappresenta sicuramente un’altra delle ricchezze di queste terre, che regalano
degli ottimi vini rossi e rosati, molti dei quali certificati dalla
Denominazione di Origine Controllata (D.O.C.). Per citare solo alcune zone
famose per i vigneti: le campagne di Ugento,
Matino, Galatina
e Nardò
sul litorale ionico, e quelle nei dintorni di Lecce, come
Salice
Salentino e Carmiano.
Negli ultimi anni poi si è sviluppato anche un notevole comparto floristico,
soprattutto nella zona di Gallipoli,
Taviano
e Alezio,
dove vengono coltivate in maniera intensiva, molte specie floreali destinate ai
mercati di tutta Italia. Da questa breve introduzione è facile comprendere come
l’agricoltura occupi ancora una grossa fetta dell’economia salentina,
conseguenza anche del fatto che da sempre l’uomo ha cercato di strappare
terreno fertile alla natura, anche se si trattava di pochi metri quadrati magari
a picco sul mare. Questo ha influito molto sulle dimensioni, la natura e il
mantenimento di quelle che si definiscono aree selvatiche, generalmente coperte
dalla caratteristica macchia mediterranea o dalla sua naturale
evoluzione, i boschi, che risultano confinati in aree poco adatte alla
coltivazione e comunque di piccola estensione. Alcune aree boschive seminaturali
si possono rinvenire sulle creste delle serre ad Alessano,
Tricase, Ugento,
Presicce, Supersano,
oppure in prossimità di ambienti retrodunari, soprattutto lungo la costa
adriatica, come ad esempio nell’Oasi naturale delle Cesine, a S.
Cataldo, Frigole
e più a Sud ai Laghi
Alimini, vicino Otranto.
Sul versante opposto, le pinete sono numerose nei pressi di Gallipoli
e più a Nord, in tutta la zona intorno a Porto
Selvaggio, S.
Caterina di Nardò
e Porto
Cesareo. Prima di indicare questi luoghi si è specificato che si tratta di
aree seminaturali, in quanto, più o meno inconsapevolmente, è spesso
intervenuta la mano dell’uomo a modificarne la diversità e la qualità delle
specie vegetali presenti. Questo è importante perché se si seguisse abbastanza
a lungo la normale evoluzione di un campo precedentemente coltivato e poi
lasciato in stato di totale abbandono, si osserverebbe una lunga ed inesorabile
sequenza di invasioni di specie vegetali differenti, chiamata successione
ecologica.
Dopo un anno dall’abbandono, il campo sarebbe già coperto di
erbacce (le cosiddette specie colonizzatrici), che dopo due o tre
anni sarebbero quasi completamente scomparse e sostituite da specie perenni,
caratterizzate da arbusti e piccoli alberi. In pratica gli arbusti soffocano le
erbacce ed i piccoli alberi diventano sempre più grandi, tanto da creare delle
ampie zone di ombra. Il processo, se lasciato a se stesso, continua ed il bosco
che si è formato nel corso degli anni, continua a cambiare fino a che una
incipiente foresta appare soffocando gli alberi pionieri, che erano
quindi cresciuti per primi. Una volta raggiunto questo stato, il cambiamento è
più lento e si dice perciò che la successione ecologica ha raggiunto il suo
stato di climax. Questa è una condizione ideale, che in assenza
dell’uomo porterebbe a quella che è definita una foresta di latifoglie
(ossia alberi a foglia larga, piuttosto coriacee) sempreverdi, tipica di
tutta l’area costiera mediterranea. Per quanto detto, invece, l’associazione
vegetale più comune in tutto il Salento è quella della macchia, il cui
aspetto e costituzione risultano molto variabili, a seconda di tutta una serie
di caratteristiche ambientali e territoriali, che influenzano notevolmente la
natura delle specie che la costituiscono, tanto da caratterizzarne in maniera
specifica una determinata zona. Si possono distinguere a prima vista ambienti in
cui la macchia è piuttosto degradata, in cui prevalgono soprattutto piante
dall’aspetto erbaceo, ossia piante a fusto tenero, abbastanza basse,
come i cardi (Cirsium lanceolatum, Carduus argyroa, Carduus corymbosus,
Silybum marianum) dalle caratteristiche foglie a margine spinoso, o il
finocchio selvatico (Phoeniculu vulgare) i cui semi sono molto usati per
aromatizzare una sorta di piccolo biscotto salato, molto usato nel Salento, le friselline.
Oltre a queste si può incontrare anche la salvia selvatica (Pholomis
fruticosa) e la carota selvatica (Daucus carota), anch’esse usate
nella cucina del luogo. Generalmente la macchia mediterranea è una
associazione vegetale abbastanza unitaria, costituita da entità che presentano
adattamenti e modificazioni dello stesso tipo, come per esempio il fatto che le
diverse specie hanno spesso foglie abbastanza piccole e coriacee, per ridurre al
massimo la traspirazione. Un’altra particolarità è legata al ciclo biologico
che si sviluppa prevalentemente nel periodo autunno – primavera, quelli più
piovosi, mentre in estate rallentano molto la loro crescita e cercano in modi
differenti di contrastare l’intenso calore. Le specie arbustive, più
evidenti sono l’erica (Erica manipuliflora) e il corbezzolo (Arbustus
unedo) con i suoi frutti rossi e globosi, molto simili a grosse ciliegie,
con la polpa giallognola succosa e piuttosto dolce. Il frutto di una pianta, il
carrubo (Ceratonia siliqua), fino a pochi anni fa presente ovunque nel
Salento, veniva molto usato, soprattutto in passato, come mangime per i cavalli
da tiro. La pianta appartiene alla famiglia delle leguminose (la stessa di fave
e
piselli) e il frutto, la carruba appunto, è un baccello pendente, di colore
marrone scuro, coriaceo, piatto, lungo anche 20 cm e molto profumato.
Quest’ultimo al suo interno contiene dei semi, anch’essi scuri, chiamati carati
(dal termine arabo Qirat), che per il loro peso sempre costante, in
passato erano utilizzati come pesi per misurare pietre preziose ed oro. Questa
pianta può assumere un aspetto cespuglioso, ma più comunemente arboreo, con
un’altezza che sfiora i 15 m, e con una chioma molto ampia e fitta; spesso
vive in stretta associazione con altre piante capaci di crescere negli stessi
ambienti, come l’olivastro (Olea oleaster), ed il fico (Ficus carica).
Ma fra le specie vegetali che popolano queste aree molte sono quelle arbustive,
delle piante legnose con fusto perenne ramificato fin dalla base, come il
rosmarino (Rosmarinus officinalis), il rovo (Rubus ulmifolius), il
mirto (Myrtus communis) e molte altre specie ancora che con il passare
del tempo possono anche diventare di notevoli dimensioni. Per finire con le
specie tipicamente arboree che come le precedenti si differenziano molto
fra di loro, per abitudini, ambiente e forma, tutte comunque in grado di vivere
su terreni aridi e piuttosto assolati. Gli alberi più tipici della zona sono
senza dubbio la varietà di quercia denominata Vallonea (Quercus aegilops),
ormai presente in pochi, grandi esemplari molti dei quali concentrati nelle
campagne intorno al comune di Tricase,
che vanta la pianta più vecchia di tutto il Salento, della veneranda età di
circa 600 anni. Questi maestosi alberi hanno un aspetto davvero imponente:
spesso possono raggiungere una altezza intorno ai 20 m e possedere un tronco, la cui base misura un diametro di oltre 1 metro.
Inoltre hanno una estesa chioma che, nel caso dell’esemplare di Tricase, copre
una superficie di circa 500 m2. Le foglie si possono riconoscere per
la notevole larghezza e i margini dentellati, di forma quasi ovale e piuttosto
allungata, mentre i frutti (le ghiande), sono molto grossi e maturano a fine
autunno, a volte usati come alimento per il bestiame. Una specie che invece è
molto più comune e molto presente nei boschi salentini è il leccio (Quercus
ilex), che può assumere sia una conformazione tipicamente arborea nelle
leccete naturali, sia un aspetto cespuglioso. A seconda di questo diverso
portamento, le foglie possono avere una forma lanceolata (a forma di
ferro di lancia) nel primo caso, mentre nel secondo sono piuttosto arrotondate.
La chioma generalmente è abbastanza fitta, ampia e ovale, slanciata verso
l’alto, mentre la corteccia è grigio scura, liscia negli esemplari giovani,
mentre in quelli vecchi, si distacca in piccole placche. I frutti sono ghiande,
però più piccole di quelle delle querce. Nei boschi, insieme al leccio può
crescere anche il pino d’Aleppo (Pinus Halepensis mill), anche questo
un grande albero che può raggiungere i 20 m di altezza, e che si adatta molto
bene nelle zone molto assolate essendo molto resistente all’aridità. Il
tronco e i rami di questa specie sono spesso ricurvi e contorti e hanno una
corteccia che può cambiare colorazione con l’età, diventando col tempo bruno
– rossiccia. Le foglie sono aghiformi, ottime per contrastare la traspirazione
e quindi la perdita di acqua, mentre il frutto è costituito da
pigne dalla
caratteristica forma conica. Sul territorio salentino è presente anche il
caratteristico pino marittimo (Pinus pinaster) con il suo lungo fusto che
può superare abbondantemente i 25 – 30 m e con la classica chioma
rotondeggiante; anche questo pino ha le foglie aghiformi e le pigne coniche, di
colore bruno chiaro. Il pino domestico (Pinus pinea), invece, viene
spesso coltivato perché le sue pigne contengono i pinoli, i semi usati
in Liguria come ingrediente fondamentale per il pesto, mentre nel Salento
vengono molto usati in pasticceria. Questo è un albero che può raggiungere i
25 m di altezza ed ha bisogno di molta luce e di calore, e può formare pinete
pure o trovarsi associato al pino marittimo. Al riparo fra questa grande varietà
di erbe, cespugli ed alberi, vivono naturalmente anche molte specie di animali,
dagli invertebrati più piccoli ai vertebrati dominati dai mammiferi. Fra gli
insetti, ve ne sono alcuni molto eleganti e spettacolari, come il macaone (Papilio
machaon), una grande farfalla molto appariscente, con il disegno delle ali a
bande gialle e nere, e una larga fascia frastagliata di colore blu; questa è
una delle più grandi farfalle diurne italiane. Altri, invece, sono
completamente mimetizzati nella vegetazione, come l’insetto stecco (Bacillus
rossii) che diventa praticamente invisibile nel suo habitat naturale, gli
arbusti. Per finire con la famosa, mantide religiosa (Mantis religiosa)
conosciuta per
la sua particolare abitudine di divorare il compagno, dopo la
fecondazione, ma che è anche una insaziabile carnivora che si ciba di mosche,
cavallette, farfalle e molti altri insetti. Un insetto carnivoro molto
conosciuto e a torto molto temuto nel Salento, è la tarantola (Lycosa
tarentula), un grosso ragno di colore grigio rossiccio, con disegni neri. In
passato, le persone punte da questo animale si ritenevano “possedute” dal
suo spirito, e l’unica cura per liberarlo, era il ballo forsennato al ritmo di
una musica eseguita con gli strumenti più disparati, come il tamburello,
ed era chiamata “pizzica” con un evidente richiamo alla
puntura dell’animale. Fra i più
accaniti predatori di insetti si trovano anche molti vertebrati, e un
particolare riguardo spetta alle molte specie di volatili sia stanziali, che
migratori, che molto spesso si avvistano in queste zone del Salento. Quelli più
caratteristici sono l’upupa (Upupa epops) dall’aspetto
inconfondibile, con il becco ricurvo e la lunga cresta erettile, il piumaggio
bruno – roseo, e la coda e le ali di colore bianco e nero, a strisce.
L’upupa si nutre appunto di insetti e piccoli vermi che trova nei terreni
circostanti la macchia. Uno dei volatili più grandi e variopinti
(soprattutto il maschio) è senza dubbio il fagiano (Phasianus colchicus)
un grande gallinaceo, con coda lunga ed appuntita, che è possibile avvistare
nelle zone più integre e poco frequentate da cacciatori, ricche di rovi e
arbusti di ogni genere; quando è spaventato questo pesante animale, si
allontana in volo, ma non si alza di
molto né per lungo tempo, provocando però
un notevole rumore. Tra gli uccelli carnivori che vivono nel Salento, la civetta
(Athene noctua) per troppo tempo considerata come uccello del malaugurio,
è molto utile, per la sua abitudine di cacciare, soprattutto di notte, piccoli
roditori come i topi, ed altri animaletti sgraditi all’uomo. Questo animale è
caratterizzato da una testa grande, piatta, e la faccia appiattita con gli occhi
di colore giallo in posizione frontale. Anche se ha abitudini prevalentemente
notturne, qualche volta, di giorno, può essere avvistata posata sui pali
telegrafici, e comunque nei pressi dei paesi. Durante una passeggiata per le
stradine di campagna, è possibile ascoltare il cinguettìo di una miriade di
altri piccoli uccelli, come il pettirosso (Erithacus rubecula), la
capinera (Sylvia atricapilla), il coloratissimo cardellino (Carduelis
carduelis) e molte altri che nidificano in queste zone. Spesso i nidi di
questi uccelli, vengono letteralmente saccheggiati dai rettili, in particolare
dal verde ramarro (Lucerta
viridis), una sorta di grande lucertola e da un serpente tipico della zona,
il cervone (Elaphe quatuorlineata), il più grande rettile d’Italia che
può raggiungere anche i 2,5 m di lunghezza. Notoriamente è ghiotta di uova
anche la volpe (Vulpes vulpes), uno dei mammiferi selvatici più grandi e
sfuggenti di tutto il Salento, da anni
ritornata a frequentare stabilmente
queste zone, anche se purtroppo troppo spesso cade vittima di incidenti
notturni, mentre attraversa le strade più frequentate da auto. E’ un animale
molto schivo, che vive prevalentemente nei boschi, ma che non disdegna di
avvicinarsi nottetempo ai paesi, dove è più facile trovare dei facili bocconi.
Si riconosce per la lunga e folta coda e per il manto di un caratteristico
colore rossiccio, oltre che per il muso aguzzo che gli conferisce il noto alone
di furbizia. Le sue abitudini alimentari la rendono facilmente adattabile a
qualsiasi luogo; si nutre infatti di tutto ciò che è commestibile, dai frutti
e le bacche fino alle carogne di animali morti e addirittura rifiuti. Questo non
toglie che sia anche un’abile cacciatrice, che cattura spesso piccoli roditori
come il topo selvatico (Apodemus sylvaticus) e il più grande e scattante
coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus). Tra gli altri mammiferi, uno
dei più caratteristici e schivi è senza dubbio il tasso (Meles meles),
dall’inconfondibile aspetto, grande quanto un cane di taglia media, e con il
corpo tozzo e zampe corte, il muso allungato e la testa sottile con delle
strisce longitudinali bianche e nere. Il manto dorsale è grigiastro, con il
ventre e le zampe neri, la coda è corta e grigia. Vive in tane
sotterranee che
scava con le robuste zampe, in territori boscosi, ma anche in pascoli aperti,
dove d’inverno si ripara e cade in letargo per tutta la stagione fredda. Di
solito si nutre di bacche e frutta; ama molto intrufolarsi nei campi dove
vengono coltivati i piccoli e dolci meloni, motivo per cui è poco simpatico ai
contadini del basso Salento, da cui viene chiamato malogna. Ultimamente
però è diventato sempre più raro e difficile da avvistare, anche per le sue
abitudini notturne. Un altro animale che vive tra i cespugli, ai bordi dei
boschi, ma anche nei giardini è il curioso riccio europeo (Erinaceus
europaeus), con il simpatico musetto che spunta dalla fitta copertura di
aculei. Anche questo è molto attivo di notte e al crepuscolo, quando abbandona
il suo nido costruito di erba, foglie e tutto il materiale vegetale che trova
nei paraggi. Si ciba prevalentemente di insetti, lumache, ma non disdegna
affatto vermi e frutta che trova abbondanti sul terreno.
L’olivo, tesoro del
Salento
L’olivo è sicuramente la pianta più
diffusa di tutto il Salento, e probabilmente
quella che meglio rappresenta la civiltà mediterranea. La sua storia millenaria
è una sintesi tra leggenda e realtà; la mitologia greca racconta che fu la dea
Minerva, sfidata da Nettuno, a far spuntare dalla terra la prima pianta di
olivo, già carica di fiori e frutti. In ogni caso da sempre fu usato come
simbolo di pace. Pare che anche ai tempi delle guerre puniche, l’ormai stanco
Annibale, consigliò ai Cartaginesi di recarsi da Scipione su battelli ornati di
rami di olivo, per concordare definitivamente la pace. Facendo un salto di quasi
duemila anni, nel luglio 1969, in piena epoca tecnologica, in occasione del
primo sbarco sulla Luna, gli astronauti americani vi posarono una targa a
ricordo della missione compiuta, con impresso un ramo di olivo in oro come
simbolo di pace. Ma sicuramente il più famoso episodio fu quello che la
religione cristiana volle indicare simbolicamente come la fine del Diluvio
Universale e quindi dell’ira divina verso l’uomo, facendo consegnare a Noè
dalla colomba, un rametto di olivo. In occasione della Domenica delle Palme si
usa benedirne i rametti e appenderli nella propria casa per proteggere la
famiglia durante tutto l’anno. Anche dal punto da un punto di vista più
terreno, l’olivo riveste una notevolissima importanza nell’alimentazione
umana. L’olio che si ricava dai suoi frutti, oltre ad essere molto saporito,
ha due importantissime
caratteristiche: quella di abbassare il livello di colesterolo nel sangue e
spiccate proprietà antiossidanti, che contribuiscono in maniera determinante a
prevenire disfunzioni cardio-vascolari ed a ridurre l’invecchiamento generale
delle cellule. Anche per questo motivo, essendone un ingrediente fondamentale,
la dieta mediterranea è considerata da medici, dietologi e nutrizionisti una
delle più equilibrate e salutari.
L’olivo
e l’olio
L’Olea europae appartiene alle
specie delle Oleacee, è una pianta sempreverde che vive molto a lungo,
tanto che si contano molti esemplari addirittura millenari, mentre le sue foglie
si rinnovano ogni due – tre anni. Dal punto di vista estetico è sicuramente
una delle piante più belle che si trovano nel Salento; possiede un apparato
radicale molto esteso e sviluppato, capace di insinuarsi tra le rocce, ed un
tronco molto ricco
di diramazioni che si protendono verso l’alto,
contorcendosi in mille forme, dalle quali
si sviluppa una fronda folta e sempreverde. Le varietà tipiche del basso
Salento sono prevalentemente due, la Cellina di Nardò e la Oglialora,
dalle quali si ricava un olio molto delicato e profumato, ottimo per condire
qualsiasi pietanza, sia cotta che cruda. Il germogliamento avviene quando la
temperatura raggiunge i 10 – 11 °C e passa dallo stato di fiore a quello di
frutto, intorno ai 21 – 22 °C; teme però i freddi improvvisi, come le
gelate, e non ama particolarmente l’umidità. Nel periodo della fioritura, che
avviene tra aprile e giugno, l’albero è completamente ricoperto di piccoli
fiori bianchi, la maggior parte dei quali cade al suolo e meno del 10% dei fiori
arriva a completa maturazione con i frutti. Questi ultimi sono molto diversi per
dimensione (da 1 a 10 g) e forma, a seconda della varietà, pur diventando tutti
di colore nero alla maturità. Le olive maturano tra novembre e febbraio, ma il
momento della raccolta dipende da molti fattori,
come quelli meteorologici e climatici, che influenzano notevolmente anche
la qualità e la quantità dei frutti. Le metodologie di raccolta sono molto
diverse, a seconda del tipo di territorio sul quale cresce l’uliveto, e dal
tipo di impianto presente nell’azienda. Essenzialmente la raccolta può essere
fatta mediante le seguenti tecniche manuali:
ü
Brucatura a mano: la raccolta avviene con le mani,
direttamente dall’albero. E’ un sistema lento e costoso, se si tiene conto
della necessità di utilizzare molta manodopera, ma si ottiene un raccolto di
qualità e soprattutto non viene danneggiato l’albero.
ü
Caduta spontanea: le olive, una volta cadute, vengono
raccolte tramite dei teli precedentemente stesi sotto l’intera area coperta
dalla chioma dell’albero, oppure vengono raccolte da terra tramite delle scope
a mano, o macchine agricole dedicate.
Ultimamente sono utilizzati anche dei
metodi meccanici, anche se in maniera piuttosto ridotta rispetto ai precedenti,
come ad esempio la:
ü
Pettinatura: si tratta di una sorta di pettine pneumatico,
che viene passato tra le fronde per staccare le olive che verranno poi raccolte
tramite dei teli, o per terra.
ü
Scrollatura: con un braccio meccanico, collegato ad una
trattrice, si scrolla letteralmente l’albero, facendo cadere a terra le olive,
che saranno raccolte in un telo sottostante.
Una volta raccolte, le olive devono essere
trasportate all’oleificio (stabilimento per l’estrazione e il
raffinamento dell’olio) per essere lavorate entro 48 – 72 ore. Qui le olive
vengono prima lavate, poi vengono eliminate tutte le impurità, come le foglie e
i sassolini. In seguito i soli frutti vengono sminuzzati e ridotti in poltiglia
mediante il frantoio. Esistono essenzialmente due tipi di frantoio,
quello tradizionale in cui la frangitura (la macinatura delle olive),
viene operata per mezzo di una o più mole (pesanti ruote di pietra
ruotanti), e quello per così dire industriale dove la stessa
operazione
è svolta da una struttura meno pesante e soprattutto appariscente,
all’interno di una camera percorsa da una cosiddetta vite senza fine. La
poltiglia che viene così prodotta viene spesso sottoposta ad un delicato
rimescolamento, in modo che le goccioline di olio si uniscano e diventino, nella
successiva operazione di spremitura, più facilmente separabili perché più
grosse; questa operazione viene definita gramolatura. La pasta ottenuta
viene quindi spremuta, con una pressione lenta ma graduale, poi l’olio
ottenuto viene una prima volta separato dal mosto (costituito dallo
stesso olio, acqua, frammenti di polpa, buccia e nocciolo) mediante centrifugazione,
oppure per decantazione. L’olio contiene ancora dei residui vegetali che
successivamente vengono definitivamente eliminati per successiva decantazione.
In seguito, l’olio deve essere conservato, in appositi contenitori, al riparo
dalla luce e dalle fonti di calore. La temperatura ideale per conservare
l’olio di oliva è compresa tra i 12 e i 14°C . In genere, se correttamente
conservato, le qualità dell’olio rimangono inalterate almeno per un anno.
L’olio così ottenuto viene definito olio di prima spremitura a freddo, che può
essere chiamato, a seconda delle sue diverse caratteristiche: olio
extravergine di oliva e vergine di oliva. Per capire il motivo di
tale classificazione si può far ricorso alla legislazione dell’Unione
Europea, che stabilisce i termini secondo i quali un olio di oliva commestibile
può avere quattro diverse denominazioni. Innanzitutto, per legge, la
denominazione “olio di oliva” è riservata al prodotto della lavorazione
dell’oliva, senza aggiunta di sostanze estranee e di oli di altra natura.
ü
Olio extravergine di oliva: ottenuto dalla spremitura
meccanica delle olive, con l’esclusivo utilizzo di mezzi fisici per il
lavaggio, la sedimentazione, la filtrazione e con un contenuto inferiore ad 1 g
ogni 100 g di acidità espressa come acido oleico. Il gusto deve essere
assolutamente perfetto e il punteggio organolettico è uguale o superiore a 6,5.
ü
Olio vergine di oliva: ottenuto come
l’extravergine, di gusto irreprensibile; la sua acidità, espressa in acido
oleico, non può essere superiore a 2 g ogni 100 g. Il punteggio organolettico
deve essere uguale o superiore a 5,5.
ü
Olio di oliva: ottenuto da un taglio di olio di oliva
raffinato e di oli di oliva vergini diversi dall’olio lampante; la sua acidità,
espressa in acido oleico, non può eccedere 1,5 g per 100 g.
ü
Olio di sansa e di oliva: ottenuto da un taglio di olio di
sansa di oliva raffinato e di oli di oliva vergini diversi dall’olio lampante;
la sua acidità, espressa in acido oleico, non può eccedere 1,5 g per 100 g.
La differenza tra i primi due oli e gli
altri è sostanzialmente dovuta al fatto che, mentre questi due possono essere
ottenuti esclusivamente mediante processi fisici e meccanici, senza alcuna
modificazione chimica, gli oli di oliva e di sansa di oliva vengono prodotti con
processi di raffinazione necessari per neutralizzare l’elevata acidità di
partenza e altri gravi difetti organolettici. Dal punto di vista nutritivo e dei
componenti, l’olio di oliva è costituito soprattutto da trigliceridi,
che rappresentano il gruppo più importante dei grassi alimentari. Tra i
costituenti fondamentali dei trigliceridi, si trovano gli acidi grassi, che
possono essere distinti in saturi ed insaturi;
i primi sono
abbondanti nei grassi animali (come il burro, lo strutto, etc.), i secondi,
invece, sono molto presenti nei grassi vegetali, come appunto l’olio di oliva.
Gli acidi grassi insaturi hanno una proprietà molto importante per
l’organismo, in quanto abbassano il livello di colesterolo, e prevengono
diverse patologie come la aterosclerosi (causata dall’accumulo di
colesterolo sulla parete interna dei vasi sanguigni) che a sua volta può
provocare malattie molto gravi come gli infarti e gli ictus. L’olio d’oliva
ha una composizione estremamente equilibrata di acidi grassi insaturi: in
percentuale l’acido oleico rappresenta il 73%, il linoleico
il 9%, il linolenico lo 0,3%. Oltre a questo tipo di acidi grassi,
nell’olio di oliva è presente anche una certa percentuale di acidi grassi
definiti poliinsaturi, detti “essenziali” perché il nostro organismo
non è in grado di sintetizzarli, quindi devono essere introdotti
necessariamente con l’alimentazione. La composizione dell’olio inoltre é
costituita anche da una serie di elementi, presenti magari in percentuali molto
basse, ma molto importanti dal punto di vista biologico, come le diverse classi
di Vitamina A, E, K e D, e molti altri costituenti, che insieme forniscono al
prodotto un elevato potere antiossidante, con notevoli effetti protettivi
nei confronti delle cellule, e di conseguenza dell’intero organismo. Per
questi motivi oltre che per la sua notevole digeribilità e l’elevato valore
calorico, l’olio d’oliva è considerato uno degli ingredienti fondamentali
di tutta la cucina salentina e mediterranea in genere, quindi un alimento
indispensabile sia per il gusto sia per la salute.
|